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Martedì 18 novembre 2008 (Agenzia SIR)
CASO ENGLARO -
Il problema siamo noi
La ricaduta educativa della sentenza della Corte di Cassazione

La sentenza ormai inappellabile ed esecutiva della Corte di Cassazione a favore della sospensione delle cure per Eluana Englaro è a tutti gli effetti una sentenza di morte, che introduce per via giurisprudenziale l’eutanasia nel nostro Paese. Nel dibattito che si è aperto, due sono le ragioni addotte dai sostenitori della sospensione delle cure: il no all’accanimento terapeutico e l’appello al principio di autodeterminazione. Sono due criteri di azione ineccepibili, ma vanno rettamente intesi e responsabilmente applicati.
L’accanimento terapeutico anzitutto. La medicina oggi dispone di possibilità sempre più estese e invasive d’intervento clinico. La possibilità medica, però, non dice comunque e sempre una liceità etica. Là dove un atto medico risulta sproporzionato rispetto ai prevedibili effetti su un paziente, si può lecitamente rinunciare. Tale atto può configurare un’ostinazione terapeutica, lesiva della dignità della persona. Al punto da configurarsi anche un obbligo di sottrarsi ad esso. Non è questo il caso di Eluana. Le cure, infatti, che le vengono prestate non sono di carattere sanitario, ma d’ordine umano. Eluana non è in grado di nutrirsi da sola, per cui viene amorevolmente assistita da persone che le procurano cibo e acqua e glieli somministrano. E in più la puliscono, la vestono, le sono premurosamente vicino. Non c’è nulla di sproporzionato, di accanimento in questo: c’è solo presenza e accompagnamento amorevole. C’è soltanto da ringraziare Dio che – in una società in cui tutti “hanno fretta” e “tanto da fare” – ci sono persone che “hanno tempo” per assistere pazienti come Eluana. Perché vietare questo amore? Amore altamente educativo! Né si dica che il coma persistente in cui è Eluana è una non-vita. Questo non è avvalorato da nessuna diagnosi clinica. In Eluana c’è attività cerebrale, anche se incompleta, e le attività organiche sono autonome: Eluana è viva. E se è viva, è persona, non meno di ogni altra che gode di ottima salute. È per questo che privarla dell’acqua e del cibo è sopprimerla.
C’è poi l’appello al principio di autodeterminazione, che fa del soggetto il primo responsabile della propria vita, chiamato a decidere della rinuncia o meno a un atto medico. Principio sacrosanto, ma che non fa del soggetto un arbitro assoluto delle proprie scelte. L’autodeterminazione, infatti, non è esercitata in un vuoto di significati e di valori, in modo da rendere ogni scelta buona e lecita. Così che rinunciare a un atto medico gravoso e dai risultati precari è autodeterminazione responsabile e legittima. Rinunciare a un atto medico che salva la vita o che consente il recupero di condizioni dignitose di vita è autodeterminazione irresponsabile e illegittima. Ugualmente dicasi della rinuncia all’alimentazione e all’idratazione che non sono atti medici, ma atti elementari e primari del vivere. È responsabile l’autodeterminazione a morire con dignità umana e cristiana; ma non a morire perché il vivere non risponde a determinati standard e qualità. La vita nostra o altrui non è un oggetto nelle nostre mani, così da non offrirsi indifferentemente all’autodeterminazione del soggetto. Questo a motivo del valore assoluto della vita umana. Valore che non può mai legittimare alcuna scelta soppressiva.
Inoltre, non va dimenticata la ricaduta educativa di una tale sentenza, che fa scuola, crea mentalità, incide sugli immaginari collettivi, favorendo una cultura eutanasica e spianando la strada all’eutanasia per tutte le persone in labili e degenerative condizioni di vita. È quello che vogliono i cultori dell’eutanasia. Dove eutanasia, prima che di una pratica, dice di una filosofia della vita. Vita intesa in termini di qualità ed efficienza, col venir meno delle quali una vita vale meno o non vale più. Nel qual caso il problema non è Eluana, come non lo è nessuno che vive nelle condizioni di Eluana. Il problema siamo noi, ai cui occhi la loro vita non ha più un valore e il loro essere ancora al mondo ci è insopportabile.

Mauro Cozzoli
docente di teologia morale - Pontificia Università Lateranense

 

 

Lunedì 17 novembre 2008 (Agenzia SIR)
CASO ENGLARO -
Un formalismo che uccide
Le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione

Con la sentenza n. 27145 del 2008, la Corte di Cassazione (a Sezioni Unite) ha respinto l’ultimo ricorso presentato contro il decreto della Corte d’Appello di Milano che il 9 luglio scorso, sulla base della famigerata sentenza n. 21748 del 2007 della stessa Corte di Cassazione, aveva autorizzato l’interruzione della nutrizione e della idratazione di Eluana Englaro. Secondo la Cassazione, infatti, il ricorso del procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano è inammissibile per carenza, nella vicenda, di un interesse pubblico.
Poiché i termini giuridici della questione restano quelli fissati lo scorso anno dalla sentenza n. 21478, è bene ricordare i tre argomenti su cui essa si è basata.
In primo luogo, secondo la Cassazione il “consenso informato” è un principio dell’ordinamento giuridico italiano, ricavabile da varie leggi e sostanzialmente recepito a livello costituzionale dal combinato disposto degli articoli 2 (tutela dei diritti inviolabili dell’uomo), 13 (libertà personale) e 32, 2° comma (divieto di trattamenti sanitari obbligatori, se non per disposizione di legge, e comunque nel rispetto della persona umana) della Costituzione. In conseguenza di ciò, il mancato consenso ad un trattamento obbliga i medici ad interromperlo, anche qualora da ciò derivi la morte del paziente. Questo primo argomento è condivisibile nella sua essenza ma non nella sua totalità. Se, infatti, non si può contestare l’esistenza di un principio del consenso informato nell’ordinamento giuridico italiano – che risulta del resto da una giurisprudenza costante e che trova una sicura base in varie leggi – ciò non significa che esso possa senz’altro trovare applicazione a trattamenti la cui mancata prestazione comporti la conseguenza immediata e sicura della morte del paziente. Il principio del consenso informato non è infatti privo di limiti e va invece bilanciato con altri, di valore almeno pari ad esso, se non superiore: in questo caso con il valore della vita umana. E lo stesso art. 32, 2° comma, della Costituzione, laddove richiede il rispetto della persona umana come limite ai trattamenti sanitari obbligatori, si presta ad essere letto anche in questa chiave. Se la persona non è – come vorrebbe Jean Paul Sartre – pura autodeterminazione, ma è un essere umano orientato ad un fine e che preesiste all’autodeterminazione – come ritenevano i padri costituenti cui gli art. 2 e 32 sono dovuti – allora il consenso informato può trovare limite proprio nei casi in cui è in gioco (in maniera immediata e sicura) la vita del paziente.
Più discutibile è il secondo argomento: avere qualificato come “trattamenti sanitari” l’alimentazione e l’idratazione. Tali trattamenti, infatti, non sono finalizzati a ristabilire uno stato di salute della persona cui sono corrisposti, ma unicamente a consentire lo svolgimento da parte di essa delle sue funzioni vitali. Ed in effetti proprio su questo punto si avverte il vuoto di umanità che aleggia sulla giurisprudenza della Cassazione: poiché la sospensione di tali trattamenti condanna la persona cui vengono rifiutati a morire di fame e di sete, evidentemente tale decisione è possibile solo muovendo dall’idea che l’essere umano che si trova in stato vegetativo permanente non sia pienamente persona.
Ma il vero e proprio monstruum dal punto di vista giuridico è il terzo argomento. Nel caso in esame, infatti, la signorina Englaro non è evidentemente in grado di autodeterminarsi e di rifiutare da sola il consenso informato ai cosiddetti trattamenti sanitari che la alimentano e la tengono in vita. Altri ha preso la decisione di interrompere tali trattamenti per causarne la morte. Secondo la Cassazione del 2007, la volontà del paziente incapace di intendere e di volere va invece determinata in base alle sue dichiarazioni anticipate di volontà (e già su questo punto si potrebbe molto dubitare, in assenza di una legge che consenta questo risultato) o in base alle dichiarazioni del paziente stesso emesse informalmente quando era sano o in base al suo “stile di vita”. In tal modo, però, non esistendo alcuna autodeterminazione secondo forme giuridicamente percepibili, si ricostruisce una volontà presunta in base ad elementi opinabili e difficili da provare. In tal modo si finisce per dare la parola decisiva alle persone che circondano il malato e alla loro visione del mondo, che essi proiettano sul paziente.
Questo quadro giuridico non era stato direttamente contestato dal ricorso del procuratore generale di Milano, né poteva esserlo. Il procuratore aveva unicamente lamentato che la Corte di Appello di Milano, prima di ordinare l’interruzione dell’alimentazione, non avesse disposto un nuovo accertamento sulla reversibilità dello stato vegetativo permanente in cui si trova Eluana Englaro. La Cassazione non ha però esaminato tale ricorso nel merito e lo ha ritenuto inammissibile per la carenza di un interesse pubblico, essendo in questione, nel caso concreto, unicamente il diritto del paziente all’autodeterminazione, anche nella fase finale della sua vita.
Così il cerchio si chiude: alla fine di questa complessa vicenda giudiziaria, la Cassazione a Sezioni Unite riscopre quel formalismo che la sua I sezione aveva avventatamente abbandonato lo scorso anno (soprattutto circa l’accertamento della volontà della paziente) e condanna Eluana Englaro a morire.

Marco Olivetti
docente di diritto costituzionale - Università di Foggia

 

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