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HOME > La Nota della Settimana > Settimana 7°/2009
 

Dopo la morte di Eluana, da dove ripartire?

 

«Tu, cara Eluana, adesso sai quale è veramente la verità. Riposa in pace in mezzo ai nostri monti». Così don Tarcisio Puntel, parroco di Paluzza, nella chiesa di San Daniele, ha salutato per l’ultima volta la giovane donna in coma vegetativo da 17 anni portata alla morte, lunedì 9 febbraio 2009, tramite l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione, nella clinica “La Quiete” di Udine dove si trovava da una settimana.

In questi ultimi mesi era capitato anche a noi di scrivere parecchie volte sulla drammatica vicenda umana di Eluana stava vivendo: una persona che ormai sentivamo parte di noi stessi, che era entrata nel nostro cuore e nelle nostre preghiere. La sua morte ci ha profondamente addolorato.

«Di fronte alla morte il credente si raccoglie in preghiera e affida a Dio l’anima di Eluana … Ora che è nella pace, ci auguriamo che la sua vicenda, dopo tante discussioni, sia motivo per tutti di riflessione pacata e di ricerca responsabile delle vie migliori per accompagnare nel dovuto rispetto del diritto alla vita, nell’amore e nella cura attenta le persone più deboli.

La morte di Eluana non può non lasciarci un’ombra di tristezza per le circostanze in cui è avvenuta, ma la morte fisica non è mai, per il cristiano, l’ultima parola. Anche in nome di Eluana continueremo, dunque, a cercare le vie più efficaci per servire la vita.» (Padre Federico Lombardi, direttore della Radio Vaticana, martedì 10 febbraio 2009)

 

Quali stati d’animo abbiamo incontrato in questi giorni? Sgomento, rabbia, ribellione per le troppe parole ascoltate, superficiale assuefazione, ma anche speranza e misericordia. La misericordia, appunto. Una virtù tipicamente cristiana. Lo ha ricordato l’arcivescovo di Udine,  monsignor Brollo, pregando il Signore di concedere a tutti "un cuore capace di amare sempre la vita, di perdonare e di ritrovare la forza di vivere da fratelli".


Esiste oppure no un potere sulla vita? «Siamo amanti della vita. Contemplativi attivi della sua bontà, verità e bellezza. Ma non al punto da volerla “ad ogni costo”. Sappiamo bene che la morte appartiene alla vita, come suo ultimo atto e momento. Così da non rifuggire e rimuovere il morire, ma viverlo in tutta libertà. Una libertà scandita dal “lasciar morire”: consentire alla morte il suo decorso, senza frapporle inutili, onerose e inumane barriere. Sappiamo di non essere obbligati ad ogni mezzo terapeutico, di cui il sapere e il potere biotecnologico dispone in modo crescente e pervasivo. Così da rinunciare responsabilmente a mezzi straordinari e smisurati di cura: mezzi eccessivi e sproporzionati rispetto ai prevedibili effetti. Non c’è – è vero – un diritto a morire: non abbiamo un potere sulla vita, né nostra né altrui. Ma a morire con dignità umana e cristiana sì. È questa dignità a farci dire no a terapie esagerate.
Con altrettanta serena e determinata consapevolezza abbiamo detto no al protocollo clinico deciso e attuato su Eluana Englaro alla casa di riposo “La Quiete” di Udine. Quelle procedure mediche infatti non rispondevano alla logica medica del “lasciar morire”, accompagnando Eluana nell’ultimo atto della sua vita; ma alla logica del “far morire”, privandola non di mezzi eccessivi e smisurati ma ordinari e semplici, che da 17 anni le consentivano di vivere. Così che, sottraendole cibo e acqua, Eluana è stata fatta morire. E questa è eutanasia: morte procurata a una persona gravemente disabile, ma viva.» ((Mauro Cozzoli, docente di Teologia Morale nella Pontificia Università Lateranense, per Agenzia SIR, giovedì 12 febbraio 2009)

 

Abbiamo sentito molto spesso ripetere: che vita era quella di Eluana e di persone così altamente disabili? «Quando non si hanno occhi per vedere in una vita piccola, gravemente sofferente, altamente disabile, segnata da processi degenerativi, una qualità e un valore, si stila ed esegue per essa un “protocollo” di morte, fatto passare come atto di grande coraggio, di magnanimità, di civiltà e di amore. Siamo agli antipodi della sapienza medica, che ha segnato per secoli la cultura e la prassi sanitaria.
Siamo passati dalla pietas per la vita alla pietas per la morte. È questo transito culturale che preoccupa: indice di una resa alla vita, in presenza dei suoi limiti. Non più l’apprezzamento di una vita per il suo esserci, ma per il modo di essere. Non più il consenso e il sostegno a persone disposte a prendersi cura delle Eluane che accompagnano il cammino dell’umana esistenza, ma agli estensori ed esecutori di testamenti, sentenze, leggi e protocolli di morte, nella paura insopportabile di una vita non (più) rispondente agli standard di qualità immaginati o imposti. È la cultura della paura e della sfiducia che sovrasta quella dell’amore e della speranza.» (Mauro Cozzoli)

 

Molti di noi si sono posti delle domande che sono ancora in attesa di una risposta. «È giusto che la magistratura verifichi quanto successo in questi tristi giorni alla "Quiete", è giusto che si faccia piena luce sull'applicazione del - comunque inaccettabile - "protocollo" dei giudici milanesi, è giusto che si fughino gli inquietanti interrogativi suscitati dall'improvviso decesso. Ma l'importante in primo luogo è che il dramma Eluana resti nella storia come l'eccezione che conferma la regola. La regola dei valori "non negoziabili", come la vita umana. In definitiva, non va vanificato il sacrificio di questa giovane donna.
Ci vuole, allora, un convinto impegno per giungere ad una normativa che colmi al più presto un evidente vuoto legislativo in materia di testamento biologico in linea con la cultura di tutela della vita dal concepimento alla fine naturale, soprattutto nelle forme più fragili.
Si tratta di una cultura, infatti, profondamente radicata in Italia. Proprio la vicenda Englaro l'ha fatta toccare con mano. In queste settimane - è il lato positivo della medaglia - sono emerse grandi testimonianze, alcune dal sapore eroico. Storie di uomini e donne messi a dura prova dalle traversie dell'esistenza. Sono racconti di vita vissuta che dicono come è possibile affrontare il dolore in vicende simili a quelle della famiglia Englaro in maniera positiva, umana, aprendosi alla vita e accogliendo la sofferenza come dono che arricchisce spiritualmente e moralmente ogni persona umana. Un inno alla vita. È da qui che dobbiamo ripartire.» (Ezio Gosgnach, direttore “La Vita Cattolica” - Udine).

 

Anche nella nostra comunità, civile e pastorale, discutiamo, confrontiamoci sul significato del vivere e del morire, sul valore della sofferenza, sulla dignità di ogni vita indipendentemente dalla “qualità” della vita. Domandiamoci seriamente cosa si può fare per riportare al primo posto nella cultura corrente l’indisponibilità della vita come valore assoluto.

Facciamoci guidare in questo impegno dalle bellissime testimonianze che, in questi giorni, ci hanno dato alcune persone semplici ed umili - con i loro gesti e le loro parole, poche ed essenziali: pensiamo alle suore misericordine di Lecco e al parroco del paesino del Friuli.

 

In questa nota non aggiungiamo altro. Le vicende di “casa nostra” (soprattutto le polemiche dentro e fuori l’amministrazione comunale) passano necessariamente in secondo piano.

Buona settimana!

Carlo & Ambrogio

 

Cernusco sul Naviglio, 16 febbraio 2009

 

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