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HOME > La Nota della Settimana > Settimana 2/2010

 

Tre buone ragioni per modificare il nostro stile di vita 

In questi giorni la diffusione dei dati record sul “poker on line”  e quelli sorprendenti sulla quantità di pane gettato via quotidianamente, oltre alle notizie sulle code davanti ai negozi per i saldi, ci inducono a qualche riflessione sui nostri stili di vita.

 «Il tema degli stili di vita – ha scritto Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per le Onlus e ordinario di Economia politica all’Università di Bologna - è oggi particolarmente attuale per almeno tre ordini di ragioni.

La prima ragione è riconducibile a un fenomeno noto, ossia il paradosso della felicità. Si tratta di un fenomeno secondo il quale all’aumentare del reddito pro capite non corrisponde un aumento della felicità e, anzi, oltre una certa soglia, si registra addirittura una diminuzione. E così il detto “La ricchezza non dà la felicità” riprende una sorprendente veridicità, mentre storicamente si pensava fosse solo un luogo comune, una sorta di detto popolare, nato per giustificare l’incapacità del sistema economico di generare progresso e dare benessere ai cittadini. Le teorie che incoraggiavano a sacrificarsi oggi per un futuro roseo, acquistano ora un senso relativo perché  abbiamo sperimentato che il nostro stile di vita attuale, fatto di ricchezza e benessere, non fa necessariamente stare meglio. Davanti a ciò la gente si domanda che senso abbiano il lavoro e il sacrificio se i soldi non rendono felici.

La seconda ragione è da ricondurre al fatto che negli ultimi due secoli lo sviluppo economico ha provocato di fatto la distruzione dell’ambiente. Abbiamo finora vissuto uno stile di vita basato sul consumo irrazionale della terra e dell’acqua, che si è rivelato insostenibile nel tempo. Il vincolo ambientale sta inducendo un cambiamento nel nostro modo di consumare, nell’oggetto del nostro consumo e anche nel livello del consumo.

Il terzo motivo per cui si è tornato a parlare di stili di vita è la presa d’atto dell’esistenza di una categoria di beni, i beni relazionali, che sono soggetti a una forma di scarsità di tipo non materiale, bensì sociale. Gli essere umani hanno necessità di consumare questo tipo di beni ma il meccanismo del mercato non è in grado di produrli. La gente ne ha bisogno, ma non ci sono soggetti di offerta. Si tratta, come abbiamo detto, di una scarsità che non è materiale, perché i beni relazionali sono legati alle relazioni interpersonali e la loro esistenza presuppone un rapporto tra le persone. Lo stile di vita della società industriale ci ha letteralmente inondati di beni materiali di tutti i tipi, ma ha impedito la generazione di beni relazionali. La società pre industriale, al contrario, non era capace di produrre beni materiali sufficienti, ma era in grado di produrre beni relazionali.

La sfida oggi consiste nel modificare il nostro stile di vita senza dover tornare alla società pre industriale. Noi, infatti, abbiamo bisogno dei beni materiali e sappiamo che sono una cosa buona; per questo motivo non accettiamo la tesi della “decrescita” in cui si teorizza un ritorno alla fase pre industriale. L’obiettivo, infatti, non è tornare indietro ma andare avanti in un modo diverso, riproporzionando, aumentando i beni relazionali e diminuendo quelli materiali.

Questo tema è per la prima volta anche affrontato in un’enciclica. Nelle precedenti, infatti, si parla solo di beni materiali o al massimo di welfare, oggi invece si torna a parlare di fraternità e della società fraterna come la sola via in grado di generare beni relazionali. Questo approccio differisce profondamente da quanto affermato nella teoria della decrescita, che abbiamo menzionato prima; essa, infatti, ha fondamenti esclusivamente materialistici e non dà alcuna indicazione sulla creazione dei beni relazionali, perché considera solo l’aspetto materiale della realtà.

In questo momento penso che la Dottrina sociale della Chiesa sia l’unica via d’uscita per risolvere il problema degli stili di vita, perché parla di fraternità e impegna i credenti a tradurre tale principio; è una sfida grossa ma possibile perché la gente è stufa.» (da: www.piuvoce.net)

 

Lo stesso professor Zamagni, intervistato dall’Agenzia Sir sulle modalità di uscita dall’attuale crisi economico-finanzairia, ha detto: «Proporre l’aumento dei consumi come via di uscita definitiva dalla crisi è privo di senso, ed è il tipico atteggiamento di chi vuol rimanere alla superficie, senza mai andare alle cause strutturali della crisi. Aumentare i consumi, infatti, significa far aumentare i profitti, ma non l’occupazione, visto che le nuove tecnologie si sostituiscono al lavoro. Se il fine è l’aumento dei profitti, allora è vero che aumentare i consumi fa aumentare i profitti delle imprese. Se il fine è invece l’aumento del lavoro, l’aumento dei consumi peggiorerà l’occupazione. Ecco perché, se vogliamo veramente mettere al centro il lavoro – inteso come lo intende il Papa, e cioè non solo come mera produzione, ma come fattore che forma il carattere degli uomini e definisce la loro identità – dobbiamo rimettere le cose in ordine, incentivando non i consumi, ma i servizi alla persona.

Il livello dei consumi non deve diminuire, deve aumentare, ma bisogna cambiare la composizione dei consumi: meno consumo di merci, più consumo di beni relazionali. In Italia non si producono abbastanza servizi alla persona: in maniera irresponsabile, continuiamo a mettere in mano ai giovani tre o quattro telefonini, convinti che sia questo il modo per star meglio. I servizi alla persona, invece – che consistono non solo nella cura sanitaria, ma anche nella cura educativa, culturale, artistica, sportiva, in una parola in tutto ciò che fa crescere la persona – sono ad alta densità lavorativa, perché nessuna macchina potrà sostituire il servizio di cura. Sono questi tipi di servizi che lo Stato e gli interventi pubblici dovrebbero incentivare, modificando così alla radice le linee di intervento attuali e lo stesso modello di sviluppo. In questo modo, infatti, si soddisfano i bisogni di cura altrimenti ignorati, si crea lavoro, si favorisce l’emersione del nero».

 

A livello locale, la Comunità pastorale “Famiglia di Nazaret” - lo scorso  9 gennaio, alla Messa delle ore 17.30 in prepositurale - ha salutato la giovane famiglia cernuschese in partenza per la Bolivia. Come ha detto don Ettore Colombo - che ha concelebrato con don Antonio Novazzi, responsabile dell’Ufficio per la Pastorale missionaria della nostra diocesi - non si è trattato solo di un saluto, ma anche di un ringraziamento per la testimonianza che questi genitori stanno dando a tutta la Comunità e per gli interrogativi che la loro partenza dovrebbe porre a ciascuno di noi, in particolare sulla nostra capacità di annunciare e vivere, in coerenza con il nostro Battesimo, nelle nostre condizioni concrete di vita, il Vangelo.

Don Antonio  ha invitato i partenti a saper condividere tutto con la nuova comunità che incontreranno, senza portare con sé tante cose,  ma cercando semplicemente di essere se stessi.

Dario Gellera, il diacono permanente della nostra Comunità, si è detto certo che la giovane famiglia imparerà molto nei due anni di permanenza nel Paese sud americano e l’ha quindi invitata, nella preghiera, a custodire nei loro cuori tutto questo per poi comunicarcelo al loro ritorno.  

 

Registriamo, inoltre, con soddisfazione una notizia pubblicata dal quotidiano Il Sole 24 Ore, che ha indicato come eccellenza, tra “i campioni del made in Italy”, un’azienda con sede in città, produttrice e venditrice in tutto il mondo di strumentazione di misura per il settore delle costruzioni.

 

Buona settimana.

Carlo & Ambrogio

Cernusco sul Naviglio, 11 gennaio 2010

 

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