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HOME > La Nota della Settimana > Settimana 29°/2009

Comunità pastorale, ci ricordiamo di ciò che conta?

Le nostre parrocchie cittadine, ufficialmente riunite dal settembre 2007 nella Comunità pastorale Famiglia di Nazaret, sono al termine del secondo anno di cammino unitario. Se nel primo anno si è cercato di comprendere la nuova realtà ecclesiale che si andava delineando, nel secondo si è dovuto fare i conti con lo scossone prodottosi dalla partenza di due sacerdoti da quasi quindici anni in mezzo a noi, don Luigi e don Claudio, e dalla lunga attesa prima dell’arrivo di don Renato.  
Un cammino fatto anche di difficoltà e fatiche, alle quali si sono aggiunti gli avvicendamenti citati. Se, come siamo convinti, tutto questo al nostro prevosto ed al nostro vicario episcopale non sfugge, a noi laici spetta riflettere e confrontarsi su quanto si è fatto in questi due anni per aiutare tutti a proseguire con fiducia nella strada intrapresa. Il periodo estivo può essere utile per questo approfondimento.

Il cammino della Comunità pastorale va letto alla luce dei cambiamenti in atto nella Chiesa diocesana e nel contesto sociale in cui viviamo e muove dalla diffusa convinzione che - a fronte del calo di sacerdoti, ma anche di fedeli disponibili ad impegnarsi - c’è bisogno di imparare a lavorare insieme, a vivere una pastorale d’insieme a partire da un progetto ben definito.
«È necessario un buon livello di formazione spirituale - ha detto don Luca Bressan, docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale in un’intervista ad Avvenire lo scorso 28 giugno - perché se vogliamo che tutta l’operazione abbia senso (cioè l’avvio del cammino delle Comunità pastorali) dobbiamo evitare di fermarci al solo aspetto organizzativo. Non stiamo solo cambiando mura o confini, ma dobbiamo ricordarci che ciò che conta è come noi usiamo questi strumenti per dirci cristiani e per vivere la nostra fede. È questo il livello profondo, se non lo raggiungiamo, tutti i cambiamenti non servono.»
Il grosso pericolo, che noi laici possiamo correre, è quello, appunto, di ridurre tutto a un puro aspetto organizzativo. Pericolo sempre in agguato in una Comunità, come la nostra, ricca di strutture e attività da gestire, a fronte di una diminuzione evidente di laici disponibili ad impegnarsi con continuità e con spirito di autentico servizio. Perché, inutile nascondercelo, spesso succede che quando una persona da anni collabora in qualche iniziativa, alla fine se ne impossessa e la rende quasi impermeabile a qualsiasi cambiamento. C’è forse, a questo proposito, da ricordarsi che “la Chiesa si serve e mai della Chiesa ci si serve. La si serve perché la si ama concretamente, come Gesù ci ha insegnato nell’ultima cena lavando i piedi ai discepoli. E quindi ci deve essere la disponibilità totale a servire la gente.”     
Sugli aspetti organizzativi, a nostro parere, dovrà comunque essere avviato nel prossimo anno un esame e una riflessione, con la determinazione anche di rinunciare a quanto può essere di appesantimento o intralcio alla vita della Comunità.
In tema di formazione spirituale, non c’è che da “dare spazio alla parola di Dio, che è l’unica capace di scaldare il cuore”, come disse nel giorno del suo “ingresso” il nostro prevosto, intensificando e valorizzando i momenti ad essa dedicati.  

«Nelle esperienze avviate nella mia Zona rilevo alcune fatiche – ha spiegato il nostro vicario episcopale, monsignor Carlo Faccendini (stesso quotidiano e medesimo giorno) - soprattutto nella fase iniziale. Ma dopo i primi passi incerti e le inevitabili paure, succede che i preti e i laici si lasciano coinvolgere, entrano in gioco e il cammino delle Comunità pastorali diventa spedito. In quel momento i fedeli si rendono conto che questa esperienza permette davvero una maggiore comunione e un maggiore spirito missionario.”
Come fedeli siamo veramente consapevoli che la missione, annuncio del Vangelo ai fratelli, incominciando da quelli che quotidianamente incontriamo, è irrinunciabile e urgente? Il nostro Arcivescovo ce lo va continuamente ripetendo, invitandoci anche a quello stile di “sobrietà” che dovrebbe contraddistinguere la nostra vita personale e comunitaria.  
Monsignor Faccendini collega la buona riuscita delle Comunità pastorali alla saggezza e alla coralità. “Se riusciremo a rispettare questi due elementi, le Comunità pastorali avranno un futuro di valore nella diocesi.”

Per continuare nella riflessione a cui accennavamo all’inizio, al termine di un anno pastorale, è importante, non solo per i preti ma anche per ogni fedele - come ha scritto don Salvatore Giuliano, parroco e teologo, lo scorso 18 giugno su Avvenire - «almeno capire se la prassi sacramentale, i cammini di spiritualità, le catechesi e le celebrazioni eucaristiche sono riuscite a creare nelle nostre parrocchie degli ambienti più accoglienti e ospitali che guardano al mondo con uno sguardo di fiducia cercando di comprendere, di quest’ultimo, anche le più stridenti contraddizioni. È questa mancata disponibilità al confronto con le mentalità odierne, è la scarsa passione verso il nostro tempo che rende alcune nostre chiese prive della freschezza spirituale di cui tutte dovrebbero brillare.»
Con riferimento poi al mutato contesto culturale e sociale in cui le nostre parrocchie si trovano a dover confrontarsi, don Giuliano ha osservato che «un atteggiamento positivo verso la modernità necessita anche di una sufficiente capacità di accoglienza verso ciò che non si condivide, non nella svendita dei propri valori, ma nella capacità di chi legge le differenze in chiave costruttiva, non cedendo nell’atteggiamento aspro dei “richiami moralistici”, ma nella “costruzione di una società accogliente dove sia possibile fare l’unità nella diversità di tutti”. Le nostre comunità parrocchiali devono esser maestre dell’arte dell’incontro aperto, all’interno e fuori di esse, ed è in questa capacità che rafforzeranno il loro fascino.»
Importanti richiami sui quali è utile riflettere e verificare il cammino della nostra Comunità.

Sarebbe anche interessante conoscere se e quali cambiamenti i non praticanti hanno rilevato, in questi due anni, nelle nostre parrocchie. Perché  non vorremmo che alla fine «il vero problema non è quello dei credenti non praticanti ma quello dei praticanti non credenti. Insomma, chi si deve convertire sono innanzitutto “i vicini”». 
Buona settimana!

Carlo & Ambrogio

Cernusco sul Naviglio, 20 luglio 2009
 

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