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HOME > La Nota della Settimana > Settimana 15/2011

SI A UN RINNOVATO IMPEGNO A TUTELA DELLA VITA UMANA. NO AL TESTAMENTO BIOLOGICO


 

Nell’agenda della Camera dei Deputati nelle prossime settimane ci sarà il voto sul disegno di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), mentre lunedì 11 aprile il consiglio comunale della nostra città dovrebbe esaminare e votare la mozione presentata da Claudio Gargantini (Gruppo misto) sul “Testamento biologico” (il testo è disponibile cliccando qui).

Si tratta di una materia estremamente importante, che pone questioni rilevanti. Noi ci limitiamo a proporre alcune riflessioni e a svolgere delle considerazioni, che ovviamente non intendono essere esaustive, avvalendoci dei contributi offerti da autorevoli esperti , intervenuti nel dibattito che su questi temi, negli ultimi mesi, si è sviluppato a livello nazionale. Ci si scuserà se questa volta la Nota è insolitamente lunga e non affronta altri argomenti.


 

“Scelte che riguardando la vita e la morte non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno” - Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, riferendosi alla legge che è in discussione alla Camera ha dichiarato - all’apertura dell’ultima sessione del Consiglio permanente della CEI, lo scorso 28 marzo - che «si tratta di porre limiti e vincoli precisi a quella ‘giurisprudenza creativa’ che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono – ha sottolineato – ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela?». Il cardinale ha così auspicato «regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani – nel contesto di una società materialista e individualista − risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste.».


 

Una prima questione che si pone riguarda il concetto di autodeterminazione – È un principio posto al centro delle tesi di coloro che sostengono che spetta solo al singolo “decidere a quale terapia sottoporsi o quale rifiutare”, come riportato anche nella mozione presentata al nostro consiglio comunale.

«Nel serrato dibattito sui temi del fine vita - ha scritto Marco Doldi per l’Agenzia SIR - un’accusa, talvolta, rivolta ai cattolici, è che essi sarebbero contro la libertà, perché non accetterebbero che ciascuno possa disporre della propria o altrui vita, al punto da decidere il momento in cui porre fine ad un’esistenza. Così alla sacralità della vita – che sarebbe l’unica cosa che i cattolici riuscirebbero a dire – si oppone il concetto nuovo di autodeterminazione, espressione matura dell’uomo contemporaneo. Su questo tema vale la pena di fare alcune riflessioni. Intanto, il punto non è che cosa l’uomo possa fare ma, in ultima analisi, chi sia l’uomo. Il problema, quindi, è a monte e la proposta dell’autodeterminazione è solo la riedizione di una lacuna antropologica, che da tempo soggiace alla nostra cultura. Sì, taluni diritti recenti – ma sono davvero diritti? – si sono imposti come frutto di una incompleta visione della persona. Aborto, fecondazione artificiale, eutanasia non sono forse stati presentati come espressione della facoltà di scegliere che cosa poter fare? Se i cattolici rifiutano queste scelte non lo fanno perché sono contro la libertà o perché fermi ad una visione religiosa, che sarebbe propria del passato. Lo fanno, invece, perché a loro sta a cuore il valore della persona: non si tratta di imporre una visione di fede, ma di riaffermare quanto di meglio i secoli ci hanno consegnato; la persona è un bene, indipendentemente dalle circostanze. Se dicono “no” a talune scelte è perché appaia meglio il “sì” incondizionato all’uomo. Se ritengono che alcuni principi – uno di questi è la difesa e la promozione della vita umana – non siano negoziabili è perché cedere in talune circostanze, aprirebbe ad innumerevoli cedimenti nei confronti di persone fragili, sole o emarginate. Sono convinti che la vita sia un bene non disponibile, non solo perché le generazioni precedenti lo hanno creduto e vissuto, ma anche perché l’alternativa sarebbe il delirio di onnipotenza. Porre fine ad un’esistenza, come crearla in un laboratorio, non è togliere qualcosa a Dio, ma è togliere l’uomo a se stesso. Affermare che la vita non può essere lasciata all’arbitrio della decisione del più forte o, semplicemente, di chi la vive significa non impadronirsene. Per questo i cattolici dicono no al vitalismo, cioè al prolungamento di una vita, che naturalmente, è giunta al suo termine. Il rifiuto di far morire è cosa ben diversa dal lasciare morire.
I cattolici sono contro una visione dell’uomo che condanna alla solitudine. In questa prospettiva errata l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere al suo auto-sviluppo ma non entrare in questo sviluppo. L’uomo, depauperato della sua origine trascendente, sarebbe solo un “farsi da solo”, senza una meta, che non sia la propria fine … “Se si può fare – si domandano taluni – perché non farlo?” E, così, tutto quanto è tecnicamente possibile sarebbe anche eticamente lecito! Ma davvero il “farsi da solo” e il “poter fare” sono la verità sull’uomo? La vera autodeterminazione è altra cosa … Romano Guardini (1885-1968), una delle maggiori figure della storia culturale europea, ha scritto: “Chi può fare ciò che vuole è ancora molto lontano dall’essere libero” (Lettere sull’autoformazione). L’uomo deve diventare libero, attraverso l’assunzione responsabile della verità su se stesso, attraverso l’accoglienza di un buon progetto, che egli riconosce al suo interno. I cattolici considerano fondamentale la libertà, perché può dare senso al bisogno di compimento della persona e al desiderio di felicità. Sono così liberi che non temono di andare contro l’opinione del momento, fosse anche quella pubblica. Vivono la libertà “esterna” non lasciandosi confondere da chi grida più forte o anche da chi segue la moda dell’opinione. In questo senso non sono schiavi di nessuno. Ma neanche di se stessi. “Quando un uomo è degno di essere detto libero? Se è, all’esterno, signore delle sue decisioni – afferma Guardini –. Se si rende indipendente dagli influssi degli uomini e delle cose, e se si comporta secondo i dettami che gli vengono dal dentro. Ma prima di tutto, se ciò che vi è di più profondo in lui, la coscienza, domina su tutto il mondo delle passioni e degli istinti”. Ecco la vera autodeterminazione!»


 

È necessaria oppure no una legge sul fine vita? I sostenitori dell’autodeterminazione non ravvisano questa necessità perché “il potere politico e quello legislativo non possono prevaricare la coscienza personale e operare in modo tale da sostituirsi alle decisioni libere e consapevoli dell’interessato, mentre devono intervenire al fine di favorire e assicurare il rispetto di tali libere decisioni”, come si legge ancora nella mozione del consigliere cernuschese.

I cattolici, ma non solo, chiedono con urgenza una legge sul fine vita perché ritengono che non possa essere lasciato ai giudici dirimere questioni delicate sul fine vita, con il rischio di decidere le sorti di una vita umana trascinati dal sentire o dall’opinione del momento.

Alla legge si chiede di esprimersi in modo semplice ed essenziale su quello che è bene fare o si deve assolutamente evitare, quando ci si trova davanti a persone che sono in coma o che sono alla fine della vita. Si tratta di trovare una base condivisa, che rispecchi il patrimonio culturale del nostro Paese.


 

Accanimento terapeutico e eutanasia si devono confrontare con il significato della persona – La discussione sul “fine vita” pone anche la necessità di riflettere sui trattamenti sanitari ai quali può essere sottoposta una persona.

«L’intervento tecnico, quello che prolunga la vita, divenendo accanimento terapeutico o quello che l’abbrevia, rivelandosi come eutanasico si devono confrontare con il significato della persona. Non un significato astratto - ha commentato Marco Doldi - evidentemente, ma assolutamente concreto: si è davanti ad una persona che soffre e che si avvicina al termine della propria esistenza.
In particolare, due sono i nodi da considerare: la sofferenza e il significato del fine vita. Oggi, da non poche parti, si considera la sofferenza come un non-senso e il fine vita come la fine dell’uomo. Eppure, la sofferenza non è priva di senso, non fosse altro perché è un momento dell’esistenza della persona. Sì la sofferenza “appartiene” a qualcuno, che la sta vivendo intensamente. Non è semplicemente un fatto fisico, da affrontare con preparati chimici: è un fatto insieme fisico e spirituale, perché la persona è “una cosa sola”. Perché soffrire? Perché si è uomini, capaci di assumere la sofferenza come un momento significativo della propria esistenza. Non di rado succede che la sofferenza guidi la persona a ridare il primato alle cose importanti della vita: relazioni, affetti, contemplazione del creato, gratuità, etc. È un momento in cui le cose, cui si dava tanta importanza perdono la loro consistenza, mentre quelle veramente importanti emergono. In questo senso, allora, è sbagliato, almeno in prima istanza, considerare la sofferenza come un nemico; fa parte della vita umana e può esercitare un influsso positivo.
Detto questo, allora ci si deve rassegnare davanti alla sofferenza? Non far nulla? Certo che no! La medicina possiede oggi tanti trattamenti che hanno come scopo quello di combattere la sofferenza, specialmente quando questa diventa così forte da essere quasi il vero male della persona: la malattia su cui concentrarsi. Le cure palliative sono oggi ampiamente diffuse e praticate sia in ospedale che a domicilio. Realisticamente nessuno è condannato alla sofferenza. Naturalmente, esse non sono la risposta completa alla sfida della sofferenza, perché la persona malata domanda qualcosa di più. Cerca la relazione e la vicinanza dei sani; chiede loro di farsi compagni di viaggio. Come è disumana l’immagine di un malato terminale sedato nelle sue sofferenze, ma lasciato solo, senza nessuno intorno. Solo perché non è stato possibile guarirlo, solo perché sta avvicinandosi alla morte, davanti a cui si è impreparati. La morte: è come se fosse un’altra dimensione, quotidianamente rimossa. E qui si evidenzia il secondo nodo: quello del significato del morire. Che cosa è la morte? Se l’uomo ascolta se stesso, senza preconcetti ideologici, avverte che non può finire tutto, ma aspira ad un’esistenza diversa, in cui non c’è spazio per la sofferenza e per il dolore. Dio ha messo nel cuore di ognuno la certezza dell’immortalità; non può finire tutto così. La filosofia, che è patrimonio dell’umanità e di ciascuno, tiene viva la ricerca di un compimento dell’esistenza nella vita oltre la morte.
Che cosa si può chiedere ad una legge? Poco, per la verità, perché la sua forma è scarna ed essenziale. Tuttavia, molto nella misura in cui tiene conto che il pensiero occidentale ha permesso di raggiungere la civiltà, di cui beneficiamo, grazie ad una lettura metafisica dell’uomo. Fin dal tempo dei greci, la cultura ha progredito, perché è stata capace di andare oltre il dato sensibile e considerare la dimensione spirituale della persona. Solo in epoca moderna si sono chiusi alla ragione gli spazi della spiritualità, affermando che appartengono, tutt’al più, alla fede. La legge non potrà esprimere la ricchezza del lavoro della ragione, ma potrà – anzi dovrà! – presupporlo.»


 

I principi del nostro ordinamento: l’articolo 32 della Costituzione - I fautori del non intervento legislativo in materia di bioetica, sostengono che il disegno di legge in discussione alla Camera contraddice l'articolo 32 della Costituzione.
«Non c’è un diritto all’autodeterminazione nella Costi­tuzione - ha commentato Ste­lio Mangiameli, docente di Dirit­to costituzionale all'Università di Teramo -, che discenda, in partico­lare, dall' articolo 32, la norma che riguarda la tutela della salute. In realtà la Costituzione, preve­dendo le libertà, disciplina gli spa­zi in cui il soggetto si può deter­minare, ma che ci sia un diritto al­l'autodeterminazione sul fine vi­ta è del tutto discutibile. Il secon­do comma dell' articolo 32 non de­termina la libertà, né un diritto dell'individuo, ma fonda un limte al legislatore. L'articolo non può voler dire che c'è un diritto alla non cura. Ma c'è un altro aspetto importante.

Il primo comma dell'articolo sta­bilisce che la salute è “fondamen­tale diritto dell'individuo”, ma an­che “interesse della collettività”. Solo in questo punto in tutta la Co­stituzione c'è questo riferimento: esiste quindi una proiezione col­lettiva permanente sul diritto alla salute. Altrimenti perché ci do­vrebbe essere l'obbligo di curare i malati? C'è l'interesse della colletività verso la salute di ogni indi­viduo e non ci può essere il dirit­to alla non salute. Il diritto costituzionale è alla tute­la della salute e non giunge sino ad ammettere la scelta della non cu­ra. Altrimenti, non solo si ignora il contenuto essenziale del diritto costituzionale, ma anche la proie­zione di carattere collettivo su questo diritto. E trasformare il li­mite a prevedere trattamenti ob­bligatori solo in base a una legge in un diritto all'autodeterminazione è un errore di interpretazione costituzionale, in quanto l'autodeterminazione, come diritto a rifiutare le cure, non è compresa, nell'articolo 32. Rifiutare le cure è una situazione di fatto, non un diritto sancito dalla Costi­tuzione.»


 

L’istituzione in alcuni Comuni dei "registri" per il testamento biologico - Si sta diffondendo negli enti locali, l’iniziativa di istituire appositi registri comunali atti a raccogliere le dichiarazioni dei cittadini di testamento biologico (le cosiddette "Dichiarazioni anticipate di trattamento" - "Dat"). Sono una settantina i Comuni sinora che hanno deciso di fare da sé, istituendo una singolare disciplina municipale sul "fine vita".

Una richiesta contenuta anche nella mozione presentata lo scorso 1° marzo al nostro consiglio comunale.
L’istituzione di questi registri è stata considerata «una provocazione ideologica – da
Francesco D'Agostino, presidente dell'Unione giuristi cattolici italiani e presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica - perché ogni giurista sa benissimo che tali registri non possono avere alcun valore giuridico, sia perché tali competenze dovrebbero essere assolutamente dello Stato - né delle Regioni, né dei Comuni - in quanto si tratta di materia afferente ai diritti personali, sia perché mi sembra che i Comuni accettino qualunque tipo di testamento biologico, mettendo inevitabilmente insieme testi ben meditati e costruiti con dichiarazioni inutilizzabili, perché prive di elementi rigorosi e, dunque, illegittime. Quella dei registri nei Comuni è quindi un'iniziativa di carattere politico-culturale che sfrutta le istituzioni per ottenere una certa valenza mediatica.»
Un altro giurista, Stefano Spinelli, entrando nello specifico della questione ha evidenziato che «ai sensi dell'art. 13 del Testo Unico Enti Locali (D. Lgs. 267/2000), al Comune spettano le funzioni amministrative (solo amministrative) che riguardano la popolazione e il territorio comunale (c'è quindi vincolo territoriale), precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
Quelle di registrazione delle Dichiarazioni non sono funzioni amministrative. Queste ultime infatti presuppongono dei criteri normativi di esecuzione (tant'è che si parla di "funzione dell'attuazione dell'ordine normativo in via di amministrazione"). Occorre cioè che sia predisposto un complesso di fini da perseguire in una materia, ed una struttura esecutiva in grado di attuarli; ciò che non è nella fattispecie, ove manca del tutto una normativa minima in grado di indirizzare l'intervento in via di amministrazione.
In secondo luogo, non si tratta di funzioni connesse e limitate all'ambito territoriale. Si pensi a quale grado di confusione si potrebbe determinare se ogni Comune decidesse i requisiti e le modalità di formazione e di tenuta di detti registri. Si produrrebbero (altro che disparità) vere e proprie discriminazioni, tra i residenti di un paese e quelli di un altro a distanza di pochi chilometri. Stupisce che certi commentatori, sempre attenti a problemi di discriminazione, qui non ne intravedano alcuno.
Non v'è dubbio che i registri debbano procedere attraverso i servizi di stato civile e siano sostanzialmente un servizio collegato. L'art. 117 Cost. assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in via generale l'ordinamento civile e specificatamente le materie di stato civile e anagrafe. Ebbene, in questo settore, l'apposita legislazione statale stabilisce che le relative funzioni amministrative sono esercitate dal sindaco, in qualità di Ufficiale di Stato civile. Si tratta cioè "non di funzioni comunali proprie", bensì delegate dallo Stato. Ora, non possono essere utilizzati servizi di competenza statale se non per le finalità e con le modalità previste da legge statale. Qui si verrebbe invece a realizzare un servizio di stato civile aggiuntivo, indipendentemente da previsioni statali! L'art. 14 del Testo Unico precisa: "Ulteriori funzioni amministrative per servizi di competenza statale possono essere affidate ai Comuni dalla legge che regola anche i relativi rapporti finanziari, assicurando le risorse necessarie". Vi è, cioè, espressa "riserva di legge", del tutto disattesa nel caso di specie.
Inoltre, un registro di tal fatta pare del tutto inutile giuridicamente. Indipendentemente dalla raccolta di queste Dichiarazioni, esse difficilmente potranno poi essere tenute in considerazione e rispettate dall'ordinamento giuridico, per mancanza degli elementi minimi di correttezza di formazione e di registrazione della volontà, oltreché di privacy. Come minimo, si dovrebbe assicurare un servizio a ciò destinato sempre aperto al pubblico, in quanto ciascuno dovrebbe avere la possibilità di modificare, rettificare, cambiare, stravolgere la propria Dichiarazione in qualunque momento (anche un secondo prima di venire a mancare).»

 

Riaffermare un impegno condiviso a tutela della vita - La competenza sull’eventuale istituzione di un registro delle dichiarazioni anticipate di volontà relative ai trattamenti terapeutici, come è stato fatto osservare da autorevoli giuristi e da organi costituzionali, è riservata allo Stato e non ai Comuni. La proposta della sua attivazione anche nel nostro Comune, presentata nella seduta del consiglio comunale dello scorso 1° marzo, ha quindi un valore puramente simbolico perché le predette dichiarazioni non potranno avere alcuna reale efficacia per chi le sottoscriverà, si presta ad accentuare le divisioni e a ridurre tutto a terreno di mero scontro ideologico.

Non sarebbe allora più utile e opportuno favorire – su una questione che comporta scelte etiche e sociali di grande rilevanza e che ha indubbiamente un forte impatto emotivo nell’opinione pubblica - l’approfondimento, il dialogo e il confronto costruttivo tra i cittadini? C’è bisogno, non solo su questo tema, di ricuperare serenità di dibattito e di giudizio, pacatezza dei toni, equilibrio e rigorosità nel confronto.

Ci auguriamo vivamente che il consiglio comunale della nostra città non approvi la mozione sul testamento biologico e invece riaffermi un impegno condiviso a tutela della vita e una rinnovata capacità di vicinanza a ogni uomo che soffre.

 

Buona settimana!

Carlo & Ambrogio

Cernusco sul Naviglio, 11 aprile 2011


 

 

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