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HOME > La Nota della Settimana > N° 11/2013

“SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE …”:
LA CHIESA RIGENERA SE STESSA
CON LA FORZA DEL VANGELO

 

In questi primi giorni del suo pontificato papa Francesco ci sta stupendo di momento in momento. Non c’è occasione in cui – prendendo la parola o compiendo con semplicità alcuni gesti – non ci provoca positivamente con la radicalità originaria del Vangelo. Non che prima non si annunciasse il Vangelo nella Chiesa, ci mancherebbe altro! Soltanto che, con il passare del tempo, l’attenzione era ormai andata posandosi su ciò che è secondario o che attira maggiormente la curiosità della gente.
Gli scandali messi a più riprese in primo piano da parte dei media, un clima di sfiducia e di divisione all’interno della comunità cristiana, una certa cura esagerata della Chiesa nel dire se stessa e nel difendersi anche attraverso dei segni esteriori, alla fine hanno messo in secondo piano ciò che doveva rimanere – e rimane comunque – il suo cuore, il motivo del suo esistere nel mondo: la persona di Gesù e la parola della Croce, che poi si traduce anche nell’attenzione all’uomo e, in particolare, al povero e all’ultimo.
Papa Francesco non ha fatto altro che ricordarlo, non perché ha assunto un ruolo – quello del Sommo Pontefice – ma semplicemente perché questo Vangelo lo ha vissuto nella propria esistenza e lo sta vivendo ancora oggi nella sua esperienza spirituale di cristiano e di discepolo del Signore.

Dalla loggia di San Pietro - Lo ha fatto fin dal primo momento, presentandosi ritto, in piedi, davanti alla folla, dalla loggia di San Pietro, senza dire all’inizio alcuna parola. Nello stesso atteggiamento con cui Gesù è rimasto ritto davanti al procuratore romano e alla folla che lo accusava, durante la sua passione, e si è poi manifestato in mezzo ai discepoli radunati insieme, in piedi, dopo la sua risurrezione.
Lo ha fatto mostrando la sua semplice umanità, prima ancora che la sua levatura spirituale, con un linguaggio che è andato subito al cuore delle persone: il saluto della “buona sera”, il racconto della sua nomina a “vescovo di Roma”, preso dai suoi fratelli “dalla fine del mondo”, la preghiera per il suo predecessore – una preghiera cristiana tradizionale e accessibile a tutti, fatta di un Pater, Ave, Gloria –, il legame stretto e inscindibile con il suo popolo – “vescovo e popolo” che camminano insieme, secondo il dettame che il Concilio Vaticano II usa per descrivere l’identità esteriore della Chiesa – la richiesta della preghiera per sé, prima della benedizione, ottenendo dalle migliaia di persone presenti in piazza San Pietro un silenzio più ricco di molte parole, la benedizione e un cordiale arrivederci.

Ai “fratelli cardinali” - Nell’intensa omelia pronunciata davanti ai “fratelli cardinali” il giorno seguente, nella cappella Sistina, papa Francesco ha ricordato nuovamente l’essenziale per la vita della Chiesa: camminare, costruire, confessare. Camminare insieme, alla presenza di Dio; edificare il suo corpo, il corpo di Cristo, come pietre vive e sante; confessare la sua Croce: “Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore”. Niente di più semplice e, allo stesso tempo, di più difficile da dire. E anche nell’udienza riservata a tutti i cardinali è ritornato sugli stessi temi, con espressioni di una chiarezza disarmante eppure dimenticata: “Noi siamo fratelli”. Non è ingenuità o facile irenismo: «Questa conoscenza e questa mutua apertura ci hanno facilitato la docilità all’azione dello Spirito Santo. Egli, il Paraclito, è il supremo protagonista di ogni iniziativa e manifestazione di fede. È curioso: a me fa pensare, questo. Il Paraclito fa tutte le differenze nelle Chiese, e sembra che sia un apostolo di Babele. Ma dall’altra parte, è Colui che fa l’unità di queste differenze, non nella “ugualità”, ma nell’armonia». Così ha detto papa Francesco.

Incontrando i giornalisti - Anche con i giornalisti ha utilizzato lo stesso stile di cordialità e di incoraggiamento nell’annunciare i valori del Vangelo, rivolgendo loro “un invito a cercare di conoscere sempre di più la vera natura della Chiesa e anche il suo cammino nel mondo, con le sue virtù e con i suoi peccati, e conoscere e le motivazioni spirituali che la guidano e che sono le più autentiche per comprenderla”. E ha aggiunto: «Voi avete la capacità di raccogliere ed esprimere le attese e le esigenze del nostro tempo, di offrire gli elementi per una lettura della realtà. Il vostro lavoro necessita di studio, di sensibilità, di esperienza, come tante altre professioni, ma comporta una particolare attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza; e questo ci rende particolarmente vicini, perché la Chiesa esiste per comunicare proprio questo: la Verità, la Bontà e la Bellezza “in persona”. Dovrebbe apparire chiaramente che siamo chiamati tutti non a comunicare noi stessi, ma questa triade esistenziale che conformano verità, bontà e bellezza». Ancora una volta il primato di Dio e della sua parola, al di sopra di tutto. E come già la sera della sua elezione aveva chiesto di essere benedetto dal popolo di Dio, inchinandosi davanti alla Chiesa e agli uomini, prima di dare la sua benedizione, così anche con i giornalisti non ha mancato di sottolineare il rispetto e l’attenzione a ciascuno, nella sua diversità, concludendo il suo intervento con queste parole: «Vi avevo detto che vi avrei dato di cuore la mia benedizione. Dato che molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti, imparto di cuore questa benedizione, in silenzio, a ciascuno di voi, rispettando la coscienza di ciascuno, ma sapendo che ciascuno di voi è figlio di Dio. Che Dio vi benedica». Un papa che dà la benedizione non nella solennità della formula liturgica, ma “in silenzio”, dal cuore, per parlare al cuore di tutti, anche di chi non è credente. Questo è il Vangelo annunciato in modo evangelico, e forse per questo capace di commuovere il cuore di molti, anche di chi è maggiormente lontano.

La prima domenica - La stessa celebrazione nella parrocchia di Sant’Anna, domenica mattina, con il saluto ai fedeli al termine della S. Messa, ad uno ad uno, alla porta della chiesa, e l’insistenza sulla “misericordia” e sulla necessità di rendere il mondo migliore attraverso il perdono, durante la preghiera dell’Angelus, non hanno fatto altro che confermare la “normalità” con cui ogni cerimoniale viene cambiato e radicalmente rinnovato. Uno stile del genere può essere facilmente interpretato come “rottura” con tutto ciò che è stato fino ad ora. Ma non è così. Solo chi non pratica lo studio, la sensibilità e l’esperienza – come ha detto il papa ai giornalisti – può pensarlo.

Una grande e profonda continuità - Da parte mia, mi pare di aver colto in questi primi giorni del pontificato di papa Francesco una grande e profonda continuità, oltre che un respiro di comunione e di cattolicità (nel senso di apertura universale ad ogni uomo). Continuità, comunione e cattolicità: la vita stessa della Chiesa, capace di rigenerarsi continuamente perché legata al Signore morto e risorto. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Sono le parole di Gesù che papa Benedetto XVI, da cardinale, aveva pronunciato all’inizio e alla fine della Via Crucis del 2005, l’ultima di papa Giovanni Paolo II, seguita dal Pontefice tenendo abbracciata la Croce nel suo studio. Poi, nella settimana dopo Pasqua, Giovanni Paolo II – il papa che aveva introdotto la Chiesa nel nuovo millennio e l’aveva guidata “fino alla fine” – morì, come il seme nel terreno, e la sua morte ha fatto germogliare il pontificato di Benedetto XVI che, alla medesima Chiesa, ha offerto la sua capacità di teologo e il suo servizio di umile lavoratore. E lo ha fatto fino a morire egli stesso, questa volta non “fisicamente”, ma “legalmente”, rinunciando ad essere papa, rimettendo il suo ministero nelle mani di quella Chiesa che glielo aveva affidato nel nome del Signore, perché non fosse impedita una più coraggiosa e rinnovata sequela di Cristo, e solo di Lui. E di nuovo, il suo cadere nella terra come un seme ha fatto nascere questo frutto che è papa Francesco, un papa che desidera non solo una Chiesa al servizio dei poveri, ma una Chiesa povera essa stessa, come da duemila anni la comunità dei discepoli del Signore cerca di esserlo.
Dobbiamo certo gioire e rallegrarci per un papa “così”, che da Buenos Aires ha portato la “buona aria” del Vangelo, ma dobbiamo anche chiederci quanto noi – come Chiesa e come discepoli del Signore (preti o laici, vescovi o cardinali, poco importa, dice papa Francesco) – siamo disposti a morire a noi stessi “perché non venga resa vana la Croce di Cristo” (1Cor 1,17). Solo così la nostra gioia sarà piena e sarà vera (cfr. Gv 3,29; 15,11). O, per dirla con san Francesco, sarà “perfetta letizia”.

Buona settimana!

don Ettore Colombo


Cernusco sul Naviglio, 18 marzo 2013

 

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