Intervista a padre Emilio Spinelli,
prete missionario da 40 anni
IL PROSSIMO DICEMBRE L’ANNIVERSARIO DI ORDINAZIONE SACERDOTALE
Approfittando della sua permanenza a Cernusco per un breve
periodo di riposo abbiamo passato una serata insieme a padre
Emilio Spinelli. Dalle solite amichevoli quattro chiacchere
siamo passati poi a rivedere alcune significative tappe del
percorso di questo nostro missionario cernuschese.
Qualcosa di diverso della solita intervista…
Avremmo voluto iniziare con una scheda anagrafica di
presentazione come è di moda adesso, ma anche se padre Emilio è
uomo di poche parole, ha subito iniziato a raccontarsi con
alcuni particolari inediti ed interessanti interrotti solamente
da una iniziale fettina di crostata ed un bicchierino di porto,
per poi finire con tanta acqua fresca… perché, a suo dire, aveva
parlato tanto!

Padre Emilio Spinelli
Prete da 40 anni, perché?
La mia è stata una scelta di libertà. Mi è piaciuta la frase del
vangelo di Matteo “il centuplo quaggiù” (Mt, 19,29), e un’altra
frase motivante sempre del vangelo “Gratuitamente avete
ricevuto, gratuitamente date”
La chiesa locale è missionaria e quando ero giovane si parlava e
si discuteva di queste cose sia in oratorio sia fuori,
frequentando anche realtà simili alla nostra, nei paesi vicini:
a Segrate, a Cassina de Pecchi, a Ronco.
Come mai il legame forte con Cassina de Pecchi?
Il legame si stabilì in seguito alla frequentazione. Fummo
invitati da don Giuseppe Locatelli ad andare ad aiutare altri
oratori. A me toccò di andare a Cassina: a Cernusco in quegli
anni ricchi di vocazioni c’erano tanti seminaristi.
Ma tu cosa facevi?
Io lavoravo in fabbrica come operaio alla Saini, ero attrezzista
meccanico.
E sulla tua vocazione cosa ha influito?
C’era un clima particolare in oratorio, don Giuseppe influì
parecchio, il giro di amicizie giovanili e poi la scuola serale
che ho frequentato a Crescenzago, seguita dai Fratelli delle
Scuole Cristiane di Giovanni Battista de La Salle. La scuola è
stata importante per noi che venivamo da fuori, e andavamo a
Milano: avevamo gli zoccoli grossi ma il cervello fino e i
professori ci apprezzavano per tutti gli sforzi che facevamo
dopo la giornata di lavoro.
Qualche figura in particolare?
Avevo un professore in terza media che ha influito
particolarmente: la scuola era veramente un punto di
riferimento. A Milano ho frequentato con altri amici di Cernusco
l’esperienza del Cenacolo, il gruppo ideato da don Pezzoni, ed
anche questa mia partecipazione è stata importante. Poi ricordo
anche i pellegrinaggi con gli ammalati a Lourdes con l’Unitalsi:
don Felice Riganti era un vero trascinatore. Nel 1963, e nei due
anni successivi, ho dato una mano come barelliere, un servizio
di volontariato verso gli ammalati. Erano settimane intense e mi
sono piaciute, anche nel viaggio, che allora si faceva in treno
sopportando non facili difficoltà, si avevano momenti belli.

Padre Emilio e Maurilio
E il seminario? Dove hai studiato?
Sono andato nel 1965 a Cervignano, vicino ad Aquilea, era il
seminario del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere, ndr).
Lo frequentavo con padre Luciano Ghezzi: avevamo fatto vita in
oratorio insieme, lui mi aveva preceduto di circa un anno. Erano
anni di contestazione anche per noi giovani preti, ed il
seminario non era esente da questo clima.
Perché proprio il Bangladesh?
Allora il Pime aveva due destinazioni privilegiate: il Brasile
ed il Bangladesh. Io come seminarista avevavo fatto un assaggio:
due mesi in prova e quel paese mi era subito piaciuto; era una
nazione povera e ricca di verde, di vegetazione. Il Pime vi
aveva una presenza da oltre 100 anni, i primi missionari vi
andarono nel 1855.
Ricordo che quando sono andato in quel paese, sorvolando l’India
e vedendola dall’ aereo mi sembrava brulla, mentre il Bangladesh
mi parve un paese da favola per la sua ricca vegetazione.
Poi, per permettere all’aereo di atterrare, dovettero
allontanare capre, mucche e tanta altra gente: lì comincia a
conoscere il Bangladesh. La folla era ovunque, c’era un bel
contatto con loro. Un secondo aereo mi avrebbe dovuto trasporate
a nord nella missione, ma un forte uragano costrinse l’aereo a
rientrare all’eaeroporto di partenza, il successivo aereo
sarebbe partito una settimana dopo! Allora sono partito in
autobus: che viaggio! Stipati su piccoli sedili, durò 14 ore per
raggiungere finalmente la casa regionale a Dinajpur.
Com’è la sitazione religiosa in Bangladesh?
La grande maggioranza è musulmana, poi c’è circa un 15% di Indù
e minoranze cristiane, buddiste e animiste. Sono una quarantina
di razze diverse. Ognuna con la propria cultura, filosofia di
vita, modi di rapportarsi tra genitori e figli, ognuno tiene
molto alla propria identità. Tutta l’Asia è piena di queste
diversità.
E i cristiani?
La Chiesa cattolica ha fatto una scelta verso queste minoranze,
è una scelta verso i poveri.
Tu fai, agisci, loro vengono da noi per i figli che fanno andare
a scuola, ma attenzione: c’è un pieno rispetto per il diritto a
seguire la propria religione.
Che situazione hai trovato?
La mia prima missione a Rahanpur era spoglia, senza piante,
c’era una casa di terra a due piani, cosa insolita ed aveva
infatti muri spessissimi per sorreggere il primo piano, poi
c’era un ostello per ragazzi. Era quasi abbandonata, non aveva
porte e finestre, non aveva gabinetti, era solo uno spazio
coperto dove qualcuno si rifugiava a passare la notte o a
ripararsi dalla pioggia, talvolta vi portavano anche le mucche.
C’erano pochi ragazzi e ricordo ancora il mio primo parroco, un
sacerdote pugliese.
E cosa hai fatto?
Il primo intervento è stato da falegname, per costruire porte e
finestre, poi ho pulito tutto l’ambiente. E intorno ho piantato
parecchie piante per facilitare l’ombra. Ho iniziato con altri
ragazzi, a farli cantare, a cercare di tenerli insieme, aiutato
da un altro animatore. Per poter parlare con loro ho seguito
oltre ad un corso di inglese anche un anno di bengales

Padre Emilio e Giancarlo
Un ricordo concreto di quella prima missione?
Avevamo costruito 200 pozzi per pompare acqua pulita da bere.
200 pozzi in 4 anni fatti funzionare con le offerte provenienti
dall’Italia, ricordo che erano state raccolte con le “prime
comunioni”.
Come ti muovevi nella missione?
In bicicletta ed i moto. La bici è più leggera, se si bucava, e
capitava spesso, la potevi riparare facilmente. La moto è
veloce, ma una volta ho forato: ho dovuto fare 20 km a piedi per
tornare alla missione a prendere l’occorrente per ripararla. Mi
aveva voluto aiutare un musulmano, che si dichiarava capace: io
lo lasciai fare, ma dopo la sua riparazione la ruota si sgonfiò
subito e lui fuggì immediatamente incontrando i miei occhi.
Smontai la gomma e poi feci altri 80 km in treno per andare in
città a farla riparare!
E la seconda missione?
A Ciampakur, dove sono stato 2 anni da solo, è poi arrivato un
seminarista ad aiutarmi. C’erano circa 400 bambini, qualche
suora, era una vecchia missione. Anche qui ho subito piantumato
tanti
alberi
che hanno poi negli anni caratterizzato questo posto: la gente
veniva anche per vedere questo bosco ed in tanti ci passavano.
Le piante rappresentano la pace del creato e della natura; ho
fatto il bosco per far partecipare tutta la gente ai lavori,
serve poi per fare legna, per raccogliere la frutta. Ci eravamo
anche organizzati per bagnare le piante e per raccogliere e
pulire le cartacce.
Costruire comunità lavorando insieme?
Abbiamo spianato e livellato montagne, anche con i bambini,
creando un anello di protezione intorno. Queste attività
diventano occasioni di lavoro per tante altre persone e rendi
abitabile e decoroso un posto. Una barriera di bambù protegge
dai venti stagionali. Il villaggio è in altura, in grado di
evitare i danni delle inondazioni frequenti e che possono essere
disastrose in quelle zone di monsoni e cicloni.
Spostando la terra avevamno anche costruito un
pukur
(laghetto) dove si potevano allevare pesci. Per la gente che non
possedeva campi da coltivare era diventato un nuovo lavoro e
questi pesci, belli grossi, anche del peso di 4 o 5 chilogrammi,
venivano in parte venduti per comprare mangime e nuovi piccoli
pesci, ed in parte serviva per far mangiare la gente.
Ci sono iniziative per rendere individui e famiglie
indipendenti?
I pozzi che abbiamo costruito, il lavoro offerto dalla missione,
la gestione del
pukur
vanno
tutti in questo senso. Ma abbiamo fatto per primi anche una
“banca dei poveri” utilizzando il microcredito.
Abbiamo finanziato numerosi prestiti, ad esempio per comprare la
lamiera per fare i tetti delle case oppure per ristrutturazioni
e altre iniziative. Inizialmente con gli uomini è stata una
esperienza negativa: spendevano male il prestito ricevuto,
magari se lo bevevano e non lo rendevano. Con il prestito
affittavano un appartamento ed andavano anche in fabbrica in
città pur di lavorare, vincendo i pregiudizi ed una campagna
contraria degli uomini musulmani che vedevano questo nuovo
fenomeno come una pericolosa forma di emancipazione femminile.
Le donne uscivano dall’isolamento del villaggio e si
confrontavano con nuovi modi di vita.
Hai
avuto problemi per la tua alimentazione?
No, mi è piaciuto tutto da subito, il riso, il pesce, la
verdura. Qui coltivano tantissime verdure come le nostre:
patate, cipolle, peperoni, melanzane, vari tipi di erbette. Non
abbiamo avuto fortuna con i pomodori: hanno preso un fungo e
sono seccati. Quando succedono queste cose, meglio lasciar
perdere per un po’ di anni, ma riproveremo. La terra, anche a
causa delle nemerose esondazioni dei corsi d’acqua principali, è
molto fertile.
Che progetti hai per il futuro?
Vorrei costruire una grande tettoia per avere uno spazio
coperto. Mi è piaciuto il porticato dell’Oasi di preghiera di
Santa Maria, magari mi servirebbe più grande per poter ospitare
la gente che si siede per terra a mangiare.
Un altro progetto è quello di costruire nei 35 villaggi della
missione un luogo di ritrovo, una chiesetta o uno spazio coperto
per più usi. Abbiamo già acquistato il terreno per edificarne 6,
e poi bisogna costruire. E’ una cosa importante, diventa una
presenza che non si può cancellare.
E il sostegno a distanza?
Certamente anche quello deve continuare con i soliti riferimenti
che già sapete. C’è tanta gente che mi aiuta e che ringrazio,
come il gruppo degli amici che già conoscete e che ormai opera
da anni. La scuola è importante: aiutiamo le minoranze etniche
ed i bambini meno fortunati nel loro cammino di integrazione
nella vita del Paese. La scolarizzazione è la via privilegiata e
unica, poiché solo attraverso l’alfabetizzazione, l’istruzione e
la formazione professionale le popolazioni tribali sono in grado
di inserirsi dignitosamente nel contesto sociale, pur mantenendo
con orgoglio tradizioni, usi e costumi a loro propri.
Quanti bambini sono passati nelle “tue scuole”?
Tanti, tantissimi, e di moltissimi ricordiamo i volti e le
storie (e qui padre Emilio si è dilungato raccontandone
alcune). Alcuni li abbiamo sostenuti anche successivamente,
quando sono andati perché meritevoli e capaci a frequentare
scuole “superiori” in città.
Anche chi legge il sito come ti può aiutare concretamente?
Con i soliti canali, ma mi hanno detto che stanno studiando
qualche nuova iniziativa per finanziare questi progetti.
Quando ritorni nel “tuo” Bangladesh?
A metà giugno dovrei ritornare, sarà con me padre Adolf, un
sacerdote del PIME che proviene dal Camerun: così dopo la tanta
curiosità per l’uomo bianco, venivano a vedermi quasi fossi in
vetrina, avranno da vedere anche l’uomo nero. Sono razze diverse
per chi vive in Bangladesh!
Sei da 40 anni in Bangladesh, e hai appena ricominciato con la
terza missione!
Si, quella del tramonto a Bhutahara! Scherzi a parte, da noi si
usa così, non c’è pensione per i missionari: è la nostra vita,
finché ce la facciamo siamo in mezzo a questa gente.
E’
questo l’augurio più bello che facciamo a padre Emilio: “Ad
multos annos”, e sempre in missione!
Intervista a cura di Giancarlo e Maurilio
Saluteremo padre Emilio in partenza per il Bangladesh a fine
mese,durante la messa delle 17,30 di sabato 21 giugno in chiesa
prepositurale.
Oltre ad accompagnarlo nella preghiera e testimoniare la nostra
vicinanza,sarà l’occasione per dare un concreto aiuto alla sua
missione.
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